L’agricoltura non se la sta passando bene. Non vanno i prezzi, non cresce la produttività, calano superfici coltivate e aziende. Fra Revisione europea, Pan, Psr, Pac e misure fra le più disparate, fare l’agricoltore è divenuto più una caccia al contributo che al raccolto. Come non bastasse, anche a livello mediatico il comparto primario viene spesso presentato come una sorta di fucina di veleni, cancri e altri malacci.
 
Il tema delle acque è fra quelli più dibattuti.
Che gli agrofarmaci possano finirvi, in un modo o nell’altro, è fatto innegabile. Che quindi possano essere trovati con le analisi è assolutamente normale. La presenza, però, viene spesso spacciata per rischio. Le percentuali vanno a sostituirsi alle concentrazioni. E così chi legge giornali o naviga su web si è fatto l’idea che dai rubinetti esca una sorta di cascata del Niagara di veleni, usati per giunta per fare venire belle le mele. Mica per assecondare la domanda interna ed esterna di cibo. Uno scollamento dalla realtà che sta già avendo nel presente delle conseguenze drammatiche per chi coltivi la terra, anziché beneficiare di uno stipendio sicuro ogni 27 del mese.   
 
Per capire quanto sia stolto e inutilmente dannoso per il Paese tale massacro mediatico, proviamo a dare un’occhiata a cosa succede all’estero. Per esempio in un Paese come l’Australia. Perché mentre in Europa, e quindi in Italia, si continua a seguire un limite per le acque potabili del tutto privo di anima scientifica, per giunta estendendolo anche alle acque superficiali, nel Regno dei canguri le cose stanno in modo molto diverso.
 
Le linee guida australiane(1) per le acque potabili si basano infatti su un calcolo molto semplice, per il quale basta un foglio di Excel e un solo dato: l’Adi, ovvero l’admissible daily intake. Questo è un riferimento comunemente accettato a livello globale quale limite che un essere umano non deve superare giornalmente per una data sostanza attiva. Non è fissato a capocchia, spuntando un numero a casaccio. Tutt’altro: viene ricavato dividendo per 100 la Noel, ovvero la No effect level osservata in laboratorio. Le cavie a quella dose non hanno mostrato alcun effetto, né negativo, né positivo. È in sostanza il valore al quale l’organismo delle cavie mostra indifferenza alla somministrazione orale quotidiana di medio periodo di una molecola. Il Noel viene poi diviso come detto per 100. Per 10 in quanto si vuole tenere conto della variabilità intraspecifica delle cavie. Poi ancora per 10 perché fra cavie e uomo potrebbe esservi differenze.
 
L’Adi è perciò un valore pari a un centesimo di una dose risultata innocua sulle cavie in laboratorio. Viene espresso in milligrammi giornalieri per chilo di peso corporeo, in modo da svincolarsi dalla corporatura dell’individuo e dalla durata dell’esposizione alla molecola.
 
Per esempio, l’Adi viene già oggi utilizzato per il calcolo dei residui massimi sugli alimenti ed è specifico per ciascuna molecola, partendo da valori di Noel che variano in funzione della tossicità intrinseca di ogni sostanza attiva. Molecola poco tossica, Noel e quindi Adi elevati. Molecola molto tossica, Noel e quindi Adi molto bassi.
 
In Australia conoscono bene il valore di questo parametro. Infatti lo usano come base di partenza per effettuare i calcoli dei limiti nelle acque degli agrofarmaci e delle sostanze chimiche in genere. Laggiù, al contrario di Europa e Italia, vengono perciò fissati per le acque potabili limiti differenti per ogni molecola. Lo 0,1 µg/L che da noi è acriticamente universale, in Australia non esiste. Esistono invece concentrazioni specifiche, calcolate per ogni molecola in base al loro altrettanto specifico Adi, applicando poi la formula sotto riportata. 
 
 
 Una formula semplicissima, come si vede, con al denominatore l’Adi, espresso in milligrammi per giorno per chilo, da moltiplicarsi per il peso corporeo medio di una persona, per esempio 60 kg, e poi ancora per 0,1. Ciò perché di tutto l’Adi disponibile, le autorità australiane vogliono per sicurezza usarne solo il 10%. Ma non solo: al denominatore viene riportato il valore di due litri come volume medio giornaliero che un Australiano potrebbe bere dal suo rubinetto. In realtà, tale volume è molto più basso (chi beve due litri al giorno di acqua del rubinetto?). Ma il volume di due litri permette di dimezzare ulteriormente il valore calcolato con le moltiplicazioni di cui sopra. È cioè da considerarsi anch’esso come cautelativo. Il risultato è infine espresso in milligrammi per litro di acqua potabile.
 
Proviamo ad applicare tale formula a due delle molecole più sotto attacco ultimamente, ovvero glifosate e terbutilazina. I rispettivi Adi mostrano valori pari a 0,3 e a 0,003 milligrammi giorno per chilo di peso corporeo(2).
 
Inserendoli nella formula australiana su riportata se ne ricavano valori nelle acque potabili di 0,9 e 0,009 mg/L. Tradotti in microgrammi, che è l’unità di misura utilizzata nei limiti europei, si ottengono valori pari a 900 e a 9 microgrammi. In pratica, se di queste due molecole si calcolassero i limiti di legge procedendo con l’approccio tossicologico, i nuovi valori sarebbero 9000 e 90 volte più alti di quelli attuali. E non per faciloneria, tutt’altro. Questi dovrebbero essere i valori da tener buoni anche perché, come si vede, fra due molecole diverse si possono scavare voragini in termini di limiti legali. Di terbutilazina, per esempio, ce ne potrebbe essere solo un centesimo rispetto a glifosate. Un rapporto nato dalla comparazione dei profili tossicologici delle due molecole, quindi basato su fatti e su valori misurati.
 
Dagli ultimi tre report dell’Ispra si evince che nemmeno quando trovato ai picchi massimi glifosate si avvicina minimamente al limite, stallando centinaia di volte sotto. Un po’ meno bene per terbutilazina, i cui valori massimi hanno superato la soglia “australiana” di 9 µg/L sia nel 2009 (33,72 µg/L), sia nel 2011 (15,5 µg/L), restandovi però al di sotto nel 2014 (3,4 µg/L). Ma questo accade, come detto, solo con i picchi massimi di concentrazione. Dando infatti uno sguardo alla distribuzione percentile, si evince che nel 2009 il 95% delle analisi ha dato responsi inferiori a 0,187 µg/L e nel 2011 a 0,03 µg/L. Vale a dire 48 e 300 volte sotto il limite. Ciò significa che i casi in cui terbutilazina è stata trovata a valori superiori a 9 µg/L vanno considerati come rare eccezioni all’interno di uno scenario estremamente positivo. Glifosate, non ne parliamo nemmeno: i numeri schiacciano qualsivoglia polemica, perfino la più maliziosa.
 
Ciò implica che di fronte a ritrovamenti eccezionali ci si dovrebbe interrogare sulle loro origini, magari anche colpose e puntiformi, anziché chiedere a livello nazionale la testa di una molecola che è decisamente utile a tutti i maiscoltori della Pianura Padana, da Cuneo a Pordenone. 
 
Si mediti su questo, quando si leggeranno gli immancabili articoli che ovviamente insisteranno a uscire ogni qual volta si vorrà buttare benzina sul fuoco, magari per ragioni di share editoriali o di finanziamenti da farsi concedere. Oggi tocca a glifosate e terbutilazina a essere nell’occhio del ciclone. Domani sarà qualcos’altro.
 
O quindi il normatore prende il toro per le corna e disarma i vari arruffapopolo, magari mettendo mano agli attuali, irrealistici, limiti sulle acque, o l’agricoltura avrà ben presto motivi ben più seri di temere perfino dei prezzi da fame con cui viene oggi strangolata.

 
  1. Pesticide residues in food and drinking water: “Human Exposure and Risks”. A cura di Denis Hamilton e Stephen Crossley.
  2. Adi delle molecole: http://www.health.gov.au/internet/main/publishing.nsf/content/ocs-adi-list.htm