Note organizzazioni ambientaliste hanno invocato la chiusura degli allevamenti. Il motivo? Gli animali inquinano e sono i principali responsabili dei cambiamenti climatici.
Ovviamente non è vero, ma a forza di ripeterlo, utilizzando a sostegno di questa tesi dati opportunamente distorti, c'è il rischio che qualcuno inizi a crederlo veramente.
E se quel qualcuno ha responsabilità di indirizzo, magari a livello europeo, la possibilità di combinare grossi guai si fa elevato.

In ballo non ci sono principi etici sul consumo o meno di prodotti di origine animale, tema sul quale ognuno è libero di esprimere il proprio convincimento. Preoccupa invece il destino di centinaia di migliaia di lavoratori e di famiglie, di strategie sulle risorse primarie di cibo, di tutela dell'ambiente.
Perché senza allevamenti la prima vittima sarebbe l'ambiente, privato del prezioso humus che deriva dalle deiezioni animali e della presenza dell'uomo che in aree difficili è resa possibile in molti casi dalle risorse economiche degli allevamenti.
 

Il vero e il falso

Questa la premessa a un recente incontro che sotto l'insegna "Cibo per la mente" raccoglie le iniziative promosse da un nutrito gruppo di organizzazioni agricole e zootecniche.
Un "manifesto" che  si propone fra l'altro di sfatare le troppe fandonie che si raccontano in merito all'impatto ambientale degli allevamenti. Che al contrario di quanto si vuol far credere, arrivano da un lungo percorso di costante miglioramento della loro sostenibilità.
Lo ha sottolineato Lea Pallaroni (Segretario generale di Assalzoo, l'associazione delle industrie mangimistiche), ricordando gli eccellenti risultati ottenuti nella riduzione dell'indice di conversione degli alimenti.
In pochi decenni questo indice è fortemente migliorato in tutte le specie animali e in particolare nel settore avicolo.
In pratica oggi gli stessi animali producono di più consumando di meno.

Dalla zootecnia si ottiene poi un mirabile esempio di economia circolare, grazie alla possibilità di utilizzare prodotti derivati da altre lavorazioni alimentari, che andrebbero altrimenti perdute, obbligando per di più a sostenere oneri di smaltimento e impattando sull'ambiente.
E non si tratta di consistenze modeste. Basti considerare che la produzione mangimistica italiana è di oltre 15 milioni di tonnellate  e che circa un terzo di queste è composta da lavorazioni residuali dell'industria alimentare.
Senza dimenticare che molti alimenti fibrosi non utilizzabili dall'uomo entrano nella razione alimentare degli animali per essere trasformati in preziose proteine nobili.
 

Gas e acqua

Però tutto questo, si dirà, lo paghiamo a caro prezzo, impattando in maniera insostenibile sull'ambiente.
Anche in questo caso occorre fare alcune precisazioni, come quelle esposte da Clara Fossato, Segretario generale di Uniceb, l'Unione italiana della filiera delle carni.
Si è partiti sfatando le affermazioni che vorrebbero la zootecnia quale principale responsabile nella emissione di gas climalteranti.
Affermare che gli allevamenti inquinano più di trasporti, industrie e produzione energetica non solo è falso, ma è una palese sciocchezza alla quale però molti credono, dopo averla sentita ripetere a oltranza.
La realtà è ben diversa e lo confermano i dati reali diffusi da Ispra, l'Istituto per la ricerca e la protezione ambientale.
Sulla base di questi dati, l'agricoltura italiana nel suo complesso incide nell'emissione di gas climalteranti per il 7% e la componente zootecnica si ferma al 5,2%.

Straordinario poi il lavoro sulla riduzione delle emissioni da parte del settore zootecnico, che rispetto al 1990 ha ridotto le emissioni del 12%, percentuale che sale al 40% se si prende in esame la contrazione delle emissioni di metano dal 1970 a oggi.
Numeri analoghi si riscontrano per l'ammoniaca, che dal 1990 al 2018 si è ridotta del 23,4%.
Dati gonfiati ad arte sono poi quelli che vengono diffusi in merito al consumo di acqua, affermando che per produrre un chilo di carne si impiegano oltre 15mila litri di acqua.
Dimenticando di dire che solo l'1% di questa acqua è quella di abbeverata, mentre il rimanente si riferisce alla produzione di alimenti per il bestiame.
E comunque  va ricordato che l'87%% di questa acqua è di origine piovana e che gran parte del restante 13% viene comunque restituita all'ambiente.
 

Politiche fallimentari

Nell'affrontare il tema della sostenibilità delle produzioni animali non si può dimenticare il contesto globale nel quale tutta l'economia si muove.
Ridurre le produzioni zootecniche, come alcune linee guida del Farm to fork sembrano voler incentivare, servirebbe solo a spostare altrove il problema ambientale.
La quota di minore produzione interna verrebbe infatti coperta dalle importazioni da paesi terzi, impoverendo l'economia europea e riducendo la sicurezza per i consumatori.
Una politica, quella che ispira il Farm to fork, pensata prima dell'insorgere della pandemia e prima che il tema del valore strategico delle produzioni agroalimentari facesse sentire prepotentemente la sua importanza.

E' tempo di rivedere queste impostazioni, cosa della quale è fermamente convinto Pier Antonio Salvador, presidente dell'Associazione italiana piscicoltori, preoccupato che la miopia di talune correnti di pensiero finisca con il distrarci dalla realtà.
E quando parla della politica europea della pesca non esita a definirla fallimentare.
I numeri sembrano dargli ragione. Mentre crescono le spinte a ridurre la pressione sulla pesca, aumentano le importazioni di pesce, che nella Ue coprono il 75% della domanda.
Davvero tanto e c'è da chiedersi se il pescato che proviene dai paesi terzi abbia analoghe caratteristiche di sostenibilità e soprattutto di sicurezza rispetto alla produzione interna.
 

Un piano per le proteine

Questo il quadro di insieme che offre il mondo delle produzioni animali, al quale si deve un contributo fondamentale nella produzione di proteine nobili per l'alimentazione dell'uomo.
I progressi sul fronte della sostenibilità sono evidenti e gli sforzi per ulteriori miglioramenti non si fermano.
Sforzi che andrebbero sostenuti da una politica europea che sappia redigere un piano cereali e un piano proteico che renda la zootecnia (e l'acquacoltura) meno dipendente dalle importazioni.
Emblematico il caso del mais, dove l'Italia era autosufficiente, ma che oggi ci vede fortemente deficitari.
E poi un riconoscimento ai risultati raggiunti, sia nella produzione primaria, sia nella trasformazione, dove si è molto investito per ridurre l'impiego di additivi e per semplificare il packaging. Cose che meriterebbero di essere messe in evidenza con adeguate campagne di informazione.
 

Nodi da sciogliere

Infine l'appello a ridurre il carico burocratico che pesa sulle aziende e l'invito a sciogliere i vincoli che frenano l'economia circolare. Molti gli esempi e fra questi quello della produzione di biometano a partire dagli scarti di macellazione.
Dunque le produzioni animali possono a ragione vantare un elevato grado di sostenibilità ambientale, sociale ed economica, che fa di esse un settore di importanza strategica imprescindibile. Disconoscere queste evidenze è un errore.