Che negli opulenti Stati Uniti la sicurezza alimentare fosse al top della classifica mondiale, con 89 punti su 100, non stupisce affatto. Magari, stupisce il secondo posto nell’indice di Singapore, con 88,2 punti. Con i suoi cinque milioni e mezzo scarsi di abitanti, concentrati soprattutto nella capitale di uno staterello di soli 640 chilometri quadrati, Singapore presenta infatti un’agricoltura estremamente ridotta, avendo puntato tutto su finanza e hi-tech.
Ciò significa che si possono raggiungere alti livelli di sicurezza alimentare anche dove la produzione di cibo sia alquanto scarsa. Il denaro, infatti, permette di acquistare all’estero il cibo che non si produce in patria. Ben lo sa anche l’Italia, la quale importa già oggi una buona parte delle sue carni, dei mangimi, del grano e della soia. Per non parlare dei concentrati di pomodoro e delle olive, quando non addirittura olio bell’e pronto. Del resto si sa: C'est l'argent qui fait la guerre. Tradotto dal francese: è il denaro che fa la guerra, anche dal punto di vista commerciale. In tal caso riempie anche i carrelli della spesa, andrebbe aggiunto.
 
Di Global Food Security Index si era già scritto l’anno scorso (leggi l’articolo), riportando la graduatoria dell’indice per come era stata rilevata nel 2014. Ora, nell’ambito di Expo 2015, DuPont ha riunito i leader del settore pubblico e privato per condividere esempi d’innovazione rurale e urbana che possano rispondere alla sfida sulla sicurezza alimentare mondiale. Nel corso dell’evento, l’Economist Intelligence Unit (EIU) ha presentato i risultati per il 2015 del Global Food Security Index, dai quali si evince un ulteriore miglioramento della sicurezza alimentare globale. Un miglioramento che però non è stato omogeneo in tutto il Pianeta, presentando luci e ombre che rappresentano le sfide da affrontare, soprattutto in Europa centrale e orientale, vittime di forti instabilità politiche e di rapida urbanizzazione.
 
In grande spolvero l’Egitto, nonostante le turbolenze politiche che lo hanno contraddistinto negli ultimi anni. L’indice è infatti cresciuto di 12,4 punti. Il valore attuale di 61,8, comunque, lascia intuire quanto ampi siano ancora i margini di miglioramento. Cresciuti anche altri Paesi africani, come Togo, Mali e Benin, malissimo invece la Sierra Leone, la quale è calata di 6,8 punti e ora staziona in 106esima posizione su 109, con soli 29 punti.  
Maluccio vanno alcuni Paesi europei, con Italia e Austria (la quale resta pur sempre al quarto posto) che perdono un punto, contro l’1,1 della danimarca, l’1,3 della Norvegia e l’1,6 della Spagna. Il Bel Paese era partito due anni fa con un 19esimo posto, sceso al 22esimo nel 2014. Un piazzamento confermato anche nel 2015, cosa che non fa certo onore a un Paese che quando apre bocca lo fa o per mangiare o per bearsi di quanto bene si mangi nello Stivale. Corruzione e gap tecnologico sono due fra i punti che zavorrano l’Italia in classifica. Sulla corruzione si dovrà fare qualcosa a livello politico. Sul gap tecnologico pure, viste le ritrosie italiane al biotech, tanto per citarne una.
 
Consulta il Global Food Security Index  2015
 
Sebbene l’Indice sia tendenzialmente migliorato a livello medio, le disuguaglianze a livello globale restano ancora sensibili
 
 

Il Food al Forum

 James C. Borel, executive vice president di DuPont, ha presieduto il forum che inaugura l’impegno della società americana come sponsor del padiglione USA a Expo. Borel ha invitato i partecipanti a estendere il dibattito oltre Expo Milano e a sfruttare i risultati del Global Food Security Index per sviluppare nuove mirate soluzioni alla fame mondiale.
 
Man mano che la popolazione globale aumenta, diventa più urbanizzata e la classe media si amplia, è necessario focalizzare adeguatamente le nostre risorse per rafforzare i sistemi alimentari e la loro capacità di recupero dalla crisi - ha affermato Borel - Dobbiamo occuparci delle cause scatenanti dei problemi, degli indicatori che influenzano la capacità di nutrirsi delle persone. Questa è la grande forza del Global Food Security Index”.
 
Borel ha poi evidenziato quattro aree d’intervento che garantiscono adeguati investimenti delle risorse: innovazione per la produttività agricola, incremento nutrizionale degli alimenti, creazione di eque politiche di libero scambio e riduzione degli sprechi alimentari.
Vero: anche per l’Italia si dovrebbe innovare più in fretta e su più fronti, se vogliamo produrre di più e meglio. Pure si dovrebbero guardare le politiche di libero scambio con un occhio meno protezionistico e provinciale, per aprirsi al Mondo per ciò che sta diventando, in barba alle pretese nostrane di campanilismi tipici e di mercati locali fittiziamenti sopravalutati.

Sugli sprechi, invece, si può fare molto grazie proprio alle nuove soluzioni proposte dalle industrie, come per esempio i nuovi packaging che prolungano la shelf-life dei prodotti, carni e pesce inclusi, ovvero due delle voci a più alto costo economico e sociale quando si parli di sprechi.
La catena di trasporto del cibo, infatti, non può essere modificata in modo sostanziale e se la popolazione vive soprattutto in città giocoforza la filiera deve conservare, raccogliere e vendere a distanza di molti chilometri, aprendo varchi al deperimento delle merci e quindi alla loro consegna in discarica. Con buona pace delle molte pretese "new age" capaci di soddisfare solo un’inezia della domanda complessiva di alimenti.

Si attendono ora i risultati dell'Indice nel 2016, pur sapendo che da un anno con l'altro difficilmente l'Italia potrà progredire più di tanto. Peggiorare invece è facilissimo: basta proseguire sulle molte strade ottuse, irrazionali e anacronistiche che finora ci hanno contraddistinto.